Quella tra Algeri e Parigi è una storia di tensioni che ha origini lontane. Legate fin dal 1830 da un controverso rapporto colonia-madrepatria, nel 1954 Algeria e Francia entrano in conflitto in seguito all’insurrezione del Front de Libération Nationale (Fln) algerino. La guerra di indipendenza che ne scaturisce si trasforma ben presto in un gioco a somma zero, in cui entrambe le parti subiscono grandi perdite e si macchiano di crimini parimenti gravi. Una delle pagine più buie viene scritta il 17 ottobre 1961, giorno in cui il Fln organizza una marcia su Parigi per protestare contro il coprifuoco imposto ai cittadini algerini. La reazione della polizia francese è brutale: 12 mila manifestanti vengono arrestati e circa un centinaio – il numero preciso non sarà mai reso noto – viene ucciso e gettato nella Senna.
Sebbene negli ultimi vent’anni la Francia abbia riconosciuto la gravità dei fatti di Parigi, riportando alla luce una pagina di storia a lungo taciuta, quanto accaduto nell’ottobre 1961 è ancora oggi fonte di frequenti tensioni. In un comunicato dello scorso 16 ottobre, ad esempio, il presidente Macron ha ricordato il massacro attribuendone la responsabilità all’allora prefetto di Parigi Maurice Papon ed omettendo di fatto il coinvolgimento della Repubblica francese. Un comunicato giudicato da molti inopportuno e che contribuisce ad aggravare una crisi già scoppiata a inizio ottobre, quando lo stesso Macron aveva accusato l’Algeria di tramandare una storia dell’Indipendenza basata su un sentimento d’odio verso la Francia piuttosto che sulla verità dei fatti.
Le tensioni tra Francia e Algeria denotano l’incapacità dei due paesi di individuare una memoria condivisa su cui fondare un’eventuale riconciliazione. Il risultato? Una crisi lunga e deleteria che finisce per aggravarsi ogni volta che i problemi del passato si intrecciano con il presente. Lo dimostra la recente decisione del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune – uscito indenne dalle elezioni dello scorso giugno – di ritirare il proprio ambasciatore da Parigi e di interdire lo spazio aereo del paese ai velivoli militari francesi: un provvedimento preso ufficialmente per ribattere alle ultime dichiarazioni di Macron e difendere la memoria algerina, ma il cui unico risultato è stato quello di privare i due paesi di un dialogo diplomatico e di compromettere l’efficacia delle operazioni militari francesi in Africa.
Al di là delle controversie legate al passato coloniale, Francia e Algeria sono due attori mediterranei che necessitano fortemente l’uno dell’altro. Economicamente parlando, l’Algeria è il primo partner commerciale della Francia nell’intera area del Medio Oriente e Nord Africa; solo nel 2020 l’interscambio tra i due paesi si è attestato sui 6,8 miliardi di euro, confermando che gli idrocarburi rappresentano la componente dominante delle esportazioni algerine verso la Francia (67,4%) e che Parigi resta il primo fornitore di prodotti agricoli ed alimentari dell’Algeria. Le dinamiche economiche si accompagnano poi a quelle culturali, considerato che l’Esagono ospita la più grande comunità algerina all’estero e che l’Algeria risente ancora oggi dell’imprinting culturale ereditato dall’ex-madrepatria. Non può infine mancare un cenno al tema della sicurezza, che vede i due paesi ugualmente esposti a minacce quali traffici illegali e migrazioni clandestine.
Al netto delle questioni economiche, culturali e securitarie che legano i due paesi, diventa legittimo domandarsi perché né Algeri né Parigi sembrino orientate verso un percorso di riconciliazione. La Francia, per cominciare, potrebbe aver scelto la linea dura per difendere la propria posizione in Africa e nel Mediterraneo. Ex potenza coloniale e a lungo potenza europea di riferimento nell’Africa Settentrionale, da tempo Parigi fa i conti con una perdita di influenza nella regione dovuta all’inasprirsi di un diffuso sentimento anti-francese e all’ingresso di nuovi player nella partita nordafricana; la scelta di adottare una politica assertiva nei confronti dell’Algeria, basata ad esempio sull’espulsione degli algerini entrati clandestinamente in Francia o sul rifiuto di etichettare il massacro di Parigi come crime d’État, potrebbe quindi denotare la volontà di Macron di riaffermare il ruolo francese nel nord del continente africano. La presa di posizione algerina potrebbe invece dipendere da più delicate questioni di stabilità interna. L’ex-colonia si trova da ormai due anni nel vortice di una crisi istituzionale provocata dall’hirak, movimento popolare deciso a promuovere un cambiamento radicale nel sistema politico algerino. In un contesto in cui il pouvoir sembra sempre più incapace di rispondere ai bisogni del paese e l’opposizione popolare diventa sempre più insistente, i tentativi di Tebboune di dipingere la Francia come un nemico storico ma ancora attuale potrebbero rispondere a due esigenze: da un lato, distogliere l’attenzione pubblica dai problemi interni del paese, dall’altro, alimentare una retorica anti-francese di cui servirsi per ravvivare un’ormai debole e vacillante unità nazionale.
Oltre ad avere ripercussioni sull’equilibrio interno dell’Algeria e sulla posizione internazionale della Francia, la crisi tra i due paesi rischia di sfiorare anche la delicata dimensione della sicurezza. Risale infatti allo scorso 10 giugno l’annuncio del presidente Macron relativo alla fine imminente dell’operazione militare Barkhane, che dal 2014 vede oltre 5000 militari francesi impegnati nel Sahel a contrasto delle milizie jihadiste.
L’importanza strategica dell’operazione deriva dalla forte instabilità della regione saheliana ed in particolare del Mali, epicentro di dinamiche quali terrorismo, traffici illegali e flussi migratori clandestini. Per quasi 8 anni le forze francesi hanno agito a fianco dei paesi del Sahel per contenere tali minacce, ma da ormai alcuni mesi l’operazione Barkhane si scontra con una crescente impopolarità sia in patria che nel continente africano. La perdita di 50 soldati e i costi elevati dell’operazione avrebbero infatti influenzato negativamente l’opinione parigina, sempre più contraria alla missione, e l’uccisione di 19 civili maliani durante un raid dell’Armée de l’Air – confermata lo scorso marzo dall’ONU – avrebbe alimentato nuove proteste anti-francesi tra la popolazione saheliana. Se consideriamo che tale impopolarità va ad aggiungersi a problematiche di carattere operativo e strategico (mancanza di un supporto solido da parte degli alleati africani, insufficiente appoggio dei paesi europei e presunti accordi tra la nuova giunta maliana e gli estremisti islamici), la decisione di Macron di interrompere l’operazione potrebbe apparire legittima. Al contempo, però, potrebbe creare un’ulteriore spaccatura nei rapporti con l’Algeria. Condividendo con il Mali una frontiera lunga ben 1.300 chilometri, la repubblica nordafricana è particolarmente sensibile all’instabilità del Sahel e starebbe già cogliendo l’opportunità della ritirata francese per cercare nuovi alleati in materia di sicurezza.
La crisi franco-algerina è indicativa della perdita di influenza che la Francia sta soffrendo tra le proprie ex-colonie e della cronica insofferenza dell’Algeria nei confronti dell’ex-madrepatria. Una situazione che crea un terreno fertile per l’avanzata di attori come Russia e Cina, le cui aspirazioni rispetto al Mediterraneo non sono certo un mistero.
La Russia, in primis, sembrerebbe voler aumentare la propria influenza sull’Algeria offrendo supporto in tema di sicurezza: lo dimostrano le esercitazioni militari congiunte che hanno avuto luogo dal 3 al 10 ottobre scorso e l’accordo relativo alla consegna di 14 cacciabombardieri Su-57 ad Algeri entro il 2025. La Cina, che gode di un rapporto privilegiato con la repubblica nordafricana fin dai tempi della guerra d’indipendenza, ha invece scelto – come già evidenziato in una nostra analisi precedente – la strada della cooperazione economica: l’Algeria è infatti attanagliata da una crisi dovuta all’eccessiva dipendenza da gas e petrolio e all’incapacità di diversificare le proprie fonti di reddito, e Xi Jinping, consapevole dell’importanza geografica e strategica che Algeri ricopre nel Mediterraneo, avrebbe già più volte offerto il proprio aiuto per accompagnare il paese lungo la strada del rilancio industriale ed infrastrutturale.
La strada che prenderà la crisi franco-algerina è difficile da prevedere. I due paesi potrebbero continuare a servirsi della retorica della memoria per alimentare tensioni oppure, consci dell’importanza che rivestono l’uno per l’altro, potrebbero mettere da parte le controversie storiche in nome della stabilità reciproca e del Mediterraneo Occidentale. Quel che è certo è che la difficile ricerca di un’autonomia economica e di una nuova identità politica hanno acceso i riflettori internazionali sull’Algeria, rendendola catalizzatrice di interessi stranieri che, a lungo andare, potrebbero influenzare il delicato assetto dell’intera regione nordafricana.
Carlotta Maiuri